quando credereA colloquio, C., una ragazza di 17 anni, mi riferisce di un fatto di cronaca molto triste: una bambina di 5 anni, conosciuta in paese, era morta velocemente di un tumore al cervello. La notizia si era diffusa in fretta e la chiesa al funerale era gremita. C. mi racconta qualcosa attorno alla vicenda e ad un certo punto pronuncia la fatidica frase: -Ma come si fa a credere in Dio quando succedono queste cose?- . E’ una classica obiezione, una domanda già sentita, che però smuove sempre l’anima del credente. Hans Jonas, filosofo tedesco, che perse la madre nelle camere a gas di Auschwitz, se lo chiese in un libro molto famoso: “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”. Semplicemente si rispose che non era possibile continuare a credere in un Dio buono e onnipotente allo stesso tempo, perché proprio davanti alla più grande atrocità che l’essere umano aveva vissuto,

Lui aveva taciuto. Jonas, quindi, sostenne che l’idea di Dio, così come se la immaginano i più, doveva cambiare. Credo, tuttavia, che per porsi tali domande non serva arrivare agli estremi dell’olocausto;  non esiste, infatti, una scala di dolore e le persone possono sentirsi sopraffatte dalla sofferenza per svariati motivi. La domanda su Dio che tace davanti al dolore si riallaccia a quella più radicale del perché esiste il male, se il Dio che ci ha creati è buono. Ci sono varie risposte logiche che i fedeli danno e le più comuni sono: il male è Dio che ci mette alla prova; oppure il male viene dalla libertà dell’uomo, è l’uomo che fa il male, non Dio; Dio non è onnipotente; Dio non è poi così buono. Queste risposte, tuttavia lasciano l’amaro in bocca, perché davanti a tragedie che coinvolgono persone innocenti, come i bambini, non esistono prove che tengano e nemmeno ci si può nascondere dietro alla malvagità dell’uomo quando accadono malattie o disastri involontari. Quello che ho imparato dai miei studi teologici è che la ragione può arrivare fin lì a spiegare le questioni di Dio. Essa è un supporto necessario alla fede, ma non è per nulla sufficiente. Davanti al dubbio di C. io ho risposto semplicemente che è proprio nei momenti più disperati che prego e credo e semplicemente lo faccio perché ne sento il bisogno, perché so e ho fede che Dio mi è accanto. Questa, è ovvio, è solo una mia modalità di fede, che può variare da persona a persona. Quello che volevo dire è che per credere serve mettere in discussione anche la parte più profonda di sé stessi, l’affettività, il sentimento. Credere è avere il privilegio si sentire che Dio ci è accanto. A volte, quindi, più che delle risposte logiche, serve citare degli esempi, che se ne trovano a centinaia nei libri sacri, ma anche nella vita di tutti i giorni. Proprio un paio di giorni fa ho letto un articolo in cui veniva raccontata la storia di una donna Hutu. La donna, durante la guerra etnica in Ruanda, stava scappando con la figlioletta di pochi mesi attraverso i campi, quando un guerriero Tutsi la raggiuse togliendole dal petto la bambina. Con il macete tagliò in due la piccola e un braccio alla donna. Ebbene, quella stessa donna, a distanza di anni, all’interno di un programma di riconciliazione, riuscì a perdonare il suo carnefice e ora collabora con lui a promuovere la pace tra i due gruppi etnici. Se questo perdono non è opera di Dio, non lo è di certo della ragione. Il cuore dell’uomo ha sfacettature misteriose (come il mondo che lo circonda) e proprio in esso si nasconde la relazione del tutto personale che si ha con Dio. Semplicemente, come al proprio padre, quando si era piccini, si può chiedere 1000 volte il perché delle cose, ma a volte è necessario fidarsi e stringersi a lui, perché di risposte non ce ne sono.