limiteLa parola limite porta con se due nuclei di significato, che si possono evidenziare meglio rispondendo ad una semplice domanda. Tenendo presente che tre dei sinonimi più comuni di limite sono confine, barriera, margine ci si può chiedere: “cosa c’è oltre il confine o la barriera o il margine?”. Rispondendo a questo quesito si ricavano le due diverse dimensioni del concetto di limite: se si ritiene che dopo il confine ci sia qualcosa d’altro, si può affermare che il limite separa, divide, stacca; se, invece, si risponde che oltre non c’è niente, si può dire che il limite è l’apice, la fine definitiva, il massimo. Nel primo caso il limite è legato all’idea di finitezza, di conclusione; nel secondo si avvicina paradossalmente al suo contrario: quando si raggiunge il punto massimo ad di là del quale non c’è più nulla significa che sono state già superate le tappe intermedie…

e che tutto il percorso è stato portato a compimento, in una ricerca che tende all’assoluto, alla perfezione, alla completa padronanza. In termini psicoanalitici la prima accezione mi sembra  legarsi all’Edipo, al consolidarsi del soggetto come separato dall’Altro, mentre la seconda all’illusione narcisista del “tutto” materno.

Un’altra domanda da porsi è: “Il limite è così facilmente individuabile, questa linea di demarcazione è così semplice da tirare?” L’esperienza umana ci suggerisce di no, nessuna realtà umana è chiaramente delimitata. Anche se si considera un limite d’eccezione, per esempio quello fra stati, per il quale si può apparentemente pensare che la linea di confine sia ben tracciata, in realtà le popolazioni che vivono vicino alle frontiere hanno molti elementi culturali, linguistici ed economici in comune e, spesso, sono le più ricche e fiorenti. Anche le scienze ammettono che spesso è difficile operare divisioni nette fra fenomeni; in medicina, ad esempio, la fisiologia corporea non è ben separato dai contributi mentali e psichici o, nella fisica, esistono particelle la cui divisibilità massima è impossibile da identificare e, all’estremo opposto, il limite dell’universo è oggetto di teorie che sembra non troveranno mai la risposta definitiva. In psicologia, inoltre, classificazioni e categorizzazioni sono continuamente dei punti critici, in quanto risultano sempre strette rispetto a quello che si osserva nella clinica.  Gli unici limiti ben definiti nei quali ci si può imbattere, infatti, sono quelli astratti, frutto di un pensiero spesso illusorio, più utili all’uomo che veri.

In Oceano Mare Alessandro Baricco, in modo molto poetico, fa emergere questa difficoltà umana a riconoscere il limite nelle sue più svariate forme, ma nello stesso tempo anche la necessità di ricercarlo continuamente, anche solo per poterlo superare. Bartleboom è uno scienziato:“la natura è perfetta perché non è infinita. Se uno capisce i limiti, capisce come funziona il meccanismo. Tutto sta nel capire i limiti”, ma la sua ricerca incontra un ostacolo davvero arduo da superare, cioè scoprire i limiti del mare: “Studiava l’esatto punto in cui l’onda, dopo essersi rotta una decina di metri più indietro, si allungava risalendo la delicata china della spiaggia e finalmente si arrestava per esitare un attimo e alfine, sconfitta, tentare un’elegante ritirata lasciandosi scivolare indietro [...]. La perfezione di quel moto oscillatorio formulava promesse che l’irripetibile unicità di ogni singola onda condannava a non esser mantenute. Non c’era verso di fermare quel continuo avvicendarsi di creazione e distruzione. I suoi occhi cercavano la verità descrivibile e regolamentata di un’immagine certa e completa: e finivano, invece, per correre dietro alla mobile indeterminatezza di quel andirivieni che qualsiasi sguardo scientifico cullava e derideva. Era seccante. [...] Prima o poi sarebbe entrato – nella cornice di quello sguardo che lui immaginava memorabile nella sua scientifica freddezza – il profilo esatto, orlato di schiuma, dell’onda che aspettava. E lì, essa si sarebbe fissata, come un’impronta, nella sua mente. E lui l’avrebbe capita.”[1]

Il limite sembra, quindi, per lo più una linea oscillante fra uno stato ed un altro che però si compenetrano, rendendo impossibile una scissione netta fra di essi.

Su questa premessa cercherò di esporre brevemente, nella prospettiva psicoanalitica, come il limite sia indispensabile per la nascita del soggetto come persona separata e psichicamente adeguata e come questo limite si costruisca (per questo ultimo punto farò riferimento al modello evolutivo di M. Mahler, al concetto di oggetto transizionale di Winnicott e soprattutto a quello di Io-pelle di Anzieu). Da notare che questi aspetti rientrano per lo più nella prima accezione di limite (quella di confine e di separatezza). Per la seconda accezione, invece, proverò a riflettere sul narcisismo e in particolare sulla tendenza narcisistica della nostra società della tecnica, sempre più incapace di stabilire dei limiti e di accettare la “castrazione” edipica. La labilità del limite e di come esso sia oscillante e indefinito tenterò di descriverla in alcuni fenomeni psichici (come la depressione o il doppio) e in alcuni prodotti umani (come la poesia), tenendo presente che questa flessibilità può rivelarsi di importanza vitale.

LA NASCITA DEL SOGGETTO: IL LIMITE FRA IL SE’ E L’ALTRO, FRA DENTRO E FUORI

Per nascita del soggetto intendo il momento nel quale un bambino, o anche una persona adulta che ha superato una psicopatologia, si costituisce come essere separato, in seguito al quale potrà costruire un’identità il più possibile stabile, una personalità unitaria e la possibilità di avere un’adeguata interazione con gli altri. Proverò, quindi, ad inoltrarmi in un percorso a ritroso per arrivare a definire, attraverso alcuni modelli psicoanalitici, come si formano i limiti che separano il Sé dagli altri e dalla realtà. Partirò dalle osservazioni della Mahler e di Winnicott, fino ad arrivare al capostipite Freud.

Prima di cominciare, però, bisogna ricordare il punto di partenza. Quando nasce il bambino è un essere la cui esperienza è caotica e disorganizzata, non comprende il dentro e il fuori, né sa distinguere le sue percezioni corporee. Vive in uno stato di completa dipendenza dalle figure di accadimento, le quali saranno indispensabili per il suo sviluppo psicologico.

M. MAHLER: LA FASE DI RIAVVICINAMENTO

La Mahler distingue diverse fasi attraverso le quali il bambino arriva a differenziarsi dalla madre a partire da una totale indifferenziazione. Fino ai 4-5 mesi (fase autistica e fase simbiotica) il bambino può solo, all’interno del legame fusionale e onnipotente con la madre, aprirsi alle stimolazioni corporee che percepisce. L’inizio della differenziazione e quindi la formazione della rappresentazione del Sé corporeo si colloca tra i 5-10 mesi (sottofase di differenziazione). Si può notare questa dinamica, per esempio, nel gioco del nascondino (cu-cu) il piacere che il bambino trae dall’essere riconosciuto dalla madre (nella quale si specchia) ricercando una conferma della propria esistenza. Con la fase di sperimentazione le acquisite capacità motorie consentano al bambino di entrare in contatto con il mondo esterno in modo attivo e di fare esperienza del proprio corpo calato nella realtà sperimentandone i limiti. Ciò contribuisce a una maggior definizione dei confini del Sé, che il bambino prova piacere nel testare rafforzandoli ulteriormente. Lo spazio privato del Sé comincia ad essere difeso dalle intrusioni non desiderate durante la fase di  riavvicinamento (metà del secondo anno), nella quale il bambino si concepisce, ormai, come essere separato, ma subisce anche una sostanziale limitazione alla sua onnipotenza, si sente indifeso e spesso impotente se non vicino alla base sicura materna e inizia a provare quella che viene definita l’angoscia di separazione. E’ una fase di transizione e ambivalenza nella quale il bambino si sente spinto evolutivamente verso la separazione ma teme, sia la perdita dell’amore materno, sia di ritornare all’interno di un legame fusionale. Il bambino completa il suo processo di separazione (emersione dalla simbiosi materna) e individuazione (conquista delle proprie caratteristiche individuali) verso i tre anni nella fase della costanza dell’oggetto: egli acquisisce un concetto stabile di Sè e dell’altro (oggetto). Il limite che separa il Sé e l’Altro viene costruito, quindi, in un processo che dura fin oltre i 3 anni, con continue oscillazioni, non semplici da superare se l’ambiente relazionale non è adeguato. Una madre eccessivamente distanziante o eccessivamente intrusiva può compromettere questo lungo percorso, nel primo caso affrettando il distacco quando il bambino non è ancora maturo, nel secondo compromettendo la separazione a causa di relazioni vischiose. Al contrario di Winnicott, inoltre, la Mahler ipotizza che è il bambino a doversi adattare all’ambiente materno e alle sue esigenze consoce e inconsce.

La nascita psicologica del soggetto avviene quindi in termini strettamente oggettuali e la libido è sempre indirizzata verso un oggetto, anche nella simbiosi, infatti, investe un oggetto duale che comprende il Sé oltre che la madre (Freud invece riteneva che la libido narcisista verso l’Io fosse in antitesi rispetto a quella oggettuale, e che quindi non si potesse investire contemporaneamente Io e oggetto). La Mahler apporta, quindi, importanti modifiche alla teoria pulsionale freudiana, mettendo in primo piano le relazioni oggettuali e ampliando il concetto di oggetto (non è più solo bersaglio della libido, ma anche elemento di contatto percettivo e stimolo alla discriminazione fra oggetti del campo interattivo). In termini più ampi, la Mahler colloca il cruciale momento di individuazione dell’essere umano, e la sua lotta tra isolamento e fusione non tanto nel classico superamento dell’Edipo, ma prima,  nelle dinamiche di avvicinamento e separazione che non dipendono solo delle gratificazioni pulsionali, ma soprattutto dalla relazione adeguata con l’Altro. E’ da ricordare, inoltre, che questi movimenti tra fusione e separazione non arrivano mai a stabilizzarsi una volta per tutte, ma permangono lungo l’arco della vita di un individuo e sono un altro segnale che indica come i limiti non siano mai netti e definitivi.

WINNICOTT: LO SPAZIO TRANSIZIONALE

Se la Mahler individua nel processo di separazione-individuazione la modalità di strutturazione del limite esterno/interno, sostenendone comunque la mai definitiva acquisizione, Winnicott propone, invece, l’idea di uno spazio di transizione, all’interno del quale il bambino possa, da una parte, vivere il proprio mondo interno, ma dall’altra mantenere il contatto con quello esterno.

Winnicott elabora il suo modello sull’emersione del Sè facendo sempre attenzione alla continua contrapposizione tra contatto e differenziazione e alla difficoltà di vivere delle relazioni intime e allo stesso tempo mantenere un’esistenza individualizzata.

Il bambino neonato che si trova ad essere in uno stato fusionale con la madre dipende dalle sue cure; ella ha il compito si contenerlo fisicamente, sostenendolo e coccolandolo (holding), ma anche psichicamente contribuendo a creare “il momento dell’illusione”, ossia il momento nel quale il bambino sviluppa il proprio senso di onnipotenza. La madre, rispondendo in modo empatico agli stati di tensione del bambino, offre l’oggetto del soddisfacimento, che l’infante crede, così, di aver generato da sè attraverso l’allucinazione. Grazie alle continue risposte materne il bambino può iniziare a significare gli stati di tensione corporea e ad associando un giusto oggetto di soddisfacimento. E’ sempre a partire da un’illusione di smisuratezza che si forma la persona. La madre deve, quindi, essere lo specchio sul quale il bambino si riconosce e deve essere riflesso della sua esperienza. Questa idea dello specchio appartiene anche all’opera di Lacan; ne “Lo stadio dello specchio”, Lacan individua nell’identificazione con la madre, ossia l’investimento libidico dell’immagine speculare di Sé il momento cruciale per la formazione dell’Io. Dopo questa fase di idilliaca onnipotenza, però, la madre, pian piano, dovrà, smettendo di modellare la sua vita sui bisogni dell’infante e rispondendo sempre di più ai bisogni che vengono in qualche modo comunicati, far presente al bambino che il mondo non è sotto il suo controllo e che la sua onnipotenza è, appunto, un’illusione. A questo processo contribuirà anche la spinta interna del bambino a volersi separare dalla madre per far emergere quello che Winnicott chiama il vero Sé. Qualora l’onnipotenza non si sia sviluppata in modo stabile tale da dar fiducia al bambino delle sue capacità, non emergerà il vero Sé ma un falso Sé, in nome della necessità a uniformarsi ed adattarsi all’ambiente che non è  stato costruito sul bambino.

La cosa interessante riguardo al limite è il concetto di oggetto transizionale, concetto che ricorda come tra due frontiere ci sia sempre, e ci debba essere, una zona franca che non appartiene a nessuna delle due parti divise e che in qualche modo le unisce. L’uso di oggetti transizionali, come copertine, pupazzi morbidi o altro che il bambino tende a portare spesso con se, soprattutto nel momento dell’addormentamento, si osserva proprio in bambini che si collocano in questa tappa evolutiva tra l’onnipotenza allucinatoria e la conquista della realtà esterna. Il bambino pensa di avere ancora il controllo onnipotente sull’oggetto, ma nello stesso tempo riconosce che l’oggetto fa parte di quelli reali. I genitori, non facendoglielo presente consentono al bambino di mantenere questo spazio rassicurante dove è ancora lui il padrone e allo stesso tempo favoriscono l’avvicinamento alla realtà e ai suoi limiti. Questi spazi a metà tra oggettività e soggettività si possono trovare anche nell’adulto quando “gioca” con le proprie fantasie e diventano un luogo prezioso di soddisfacimento pulsionale anche all’interno del mondo reale. Una funzione simile ce l’ha, per esempio, la poesia. Anche se non si può dire che la poesia sia un oggetto transizionale, si può dire che è uno spazio creativo limite, parimenti all’oggetto transizionale che coniuga il mondo interno a quello esterno. Ma di questo parlerò più avanti.

D. ANZIEU: L’IO PELLE

Anzieu ne “L’io pelle”, partendo da alcune constatazioni cliniche, biologiche e sociali, propone che nella formazione dell’Io sia implicata in modo centrale la pelle (sia a livello concreto, sia a livello metaforico), individuando nelle sue funzioni principali sempre una dialettica tra contenuto/contenitore. Il legame tra contenuto e contenitore si ritrova anche in Bion, relativamente all’opera materna di reveriè, ossia la capacità della madre di accogliere e trattenere i contenuti proiettivi del bambino per poi restituirglieli bonificati. La pelle, quindi, si pone sempre come medio fra il contenuto (soggetto) e l’esterno, permettendo la comunicazione tra i due estremi e, talvolta, mettendoli in contatto. Da notare che la capacità contenitiva materna può essere anche avvicinata all’holding di Winnicott, relativamente al sostegno e alla vicinanza corporea che la madre deve al bambino durante le cure e gli scambi affettivi. A questo riguardo non si può non citare un altro concetto proprio del pensiero bioniano, ossia quello della barriera di contatto, la cui funzione è assimilabile a quella della pelle. La barriera di contatto, considerata un insieme di elementi α (elementi potenzialmente pensabili) uniti fra loro, permette al pensiero di unire gli stimoli interni a quelli esterni. Anzieu, inoltre, non manca di ricordare che Freud, per primo, aveva elaborato l’idea delle barriere di contatto con “una tripla funzione di separazione: tra conscio e inconscio, tra memoria e percezione, tra quantità e qualità”[2], nel modello economico delle pulsioni tentando di dare una base scientifica alla psicoanalisi, ancorandola ai processi neurofisiologici. Il sistema nervoso tende, di base, a funzionare secondo un processo primario che scarica l’energia interna proveniente da stimolazioni esterne attraverso gli organi di senso per riportare a zero la tensione. L’energia, però, proprio grazie all’apparato psichico (Ψ) non viene sempre e subito scaricata. Tra Ψ e la quantità di eccitamento si trovano appunto le barriere di contatto che a loro volta sono protette dall’eccitazione esterna da uno schermo di para-quantità. Tutto questo fa si che le quantità d’energia siano dilazionate nel loro passaggio verso l’interno e quindi siano rese più sopportabili e ostacolate nella scarica quando non vantaggiosa. Le barriere, inoltre, possono contenere oltre che dilazionare una parte di questa energia potenzialmente utilizzabile per il soggetto. Un’altra funzione fondamentale è la capacità di filtrare le informazioni sensoriali esterne e di metterle in associazione con quelle dei bisogni interni. Per questo si può comprendere come Freud ritenesse che le tensioni enodogene (più avanti si chiameranno pulsioni) siano conoscibili al soggetto solo attraverso il loro legame con l’esterno e con il ricordo (mantenuto all’interno delle barriere) dell’esperienze sensoriali precedenti (rappresentanti psichici). Quando l’energia è legata a dei rappresentanti psichici il sistema nervoso segue la via del processo secondario. Infine sarà proprio l’Io, che al pari delle barriere di contatto, cercherà di porre un freno alla spinta verso la scarica immediata e organizzerà in modo alternativo l’eccitamento interno, altrimenti si andrebbe incontro a fenomeni uguali all’allucinazione primaria in cui il piacere della realtà percettiva viene subito cercato, lasciando, però, grandi delusioni nella sua mancanza.

Se Freud aveva elaborato la psicoanalisi pensandola a partire dal funzionamento del sistema nervoso, Anzieu fa un passo indietro facendo notare come i tessuti nervosi si sviluppano dallo stesso ectoderma dal quale si sviluppa la pelle. Non a caso la pelle è l’organo più ricco di terminazioni nervose, ed è proprio dall’appoggio corporeo, e soprattutto epidermico che per Anzieu si sviluppa l’io-pelle, il confine tra dentro e fuori, perché è dalla concretezza biologica che si struttura l’apparato psichico. In un certo senso, la pelle è metafora dell’emergente individuazione del soggetto rispetto allo sfondo esterno, è il contorno della figura. Il fatto non è nuovo, anche Freud, riteneva che l’Io si sviluppasse a partire da un Io corporeo, quello che è originale è questo io-pelle che sta in una fase intermedia nella quale l’io corporeo si differenzia da quello psichico, e quindi si colloca nel momento in cui il bambino comincia a rappresentarsi come Io separato e capace di contenere elementi psichici, che provengono dalle sue percezioni tattili  e dalla superficie corporea. Anzieu individua nove funzioni dell’io-pelle:

  1. funzione di conservazione della vita psichica, così come la pelle da sostegno e aiuta a dare stabilità a muscoli e scheletro.
  2. funzione di contenitore dell’apparato psichico e della pulsionalità. Proprio scontrandosi con i limiti posti dall’io-pelle l’energia pulsionale può essere sentita come spinta e pian piano differenziata e veicolata in diverse parti del corpo.
  3. funzione di para-eccitazione.
  4. funzione di riconoscimento della propria unicità e autonomia, attraverso la differenza dagli altri.
  5. funzione di intersensorialità, la pelle contiene i diversi organi di senso attraverso i quali emergono specifiche esperienze dallo sfondo generico tattile
  6. funzione di sostegno dell’eccitazione sessuale, attraverso le piacevoli cure materne e gli investimenti libidici materni
  7. funzione di ricarica libidica: l’io-pelle è in grado di trattenere la tensione energetica interna e organizzarla
  8. funzione di iscrizione delle tracce sensoriali, attraverso l’appoggio biologico (sulla pelle di imprimono i contorni degli oggetti reali) e sociale (la pelle può essere elemento di riconoscimento comune attraverso elementi simbolici)
  9. funzione di distruzione, in antitesi alle precedenti (libidiche o di attaccamento)  riscontrata fenomeni immunologici di rifiuto del diverso dentro di sé (fenomeni di rigetto) e di attacco diretto contro il proprio Sé (fenomeni allergici o malattie auto-immuni).

Le cure materne forniscono un supporto conservativo e contenitivo di tipo narcisistico grazie al quale il bambino può sperimentare una certa sicurezza riguardo alla propria integrità corporea mentre entra in contatto con il mondo, ma non solo, nello stesso tempo offrono una base sulla quale il piccolo può avere esperienza delle sensazioni di piacere date dai giochi “erotici” che la madre fa stimolando la sua pelle. La pelle diventa anche luogo di integrazione della psicosessualità. Relativamente a quest’ultimo punto, non è insolito trovare in pazienti con un’immagine corporea scissa, della quale riconoscono per esempio solo la testa, o la parte superiore del busto o con problemi legati alla sessualità, come assenza di desiderio o vergogna per i propri organi sessuali. L’inibizione del desiderio, in particolare, può essere facilmente accostata ad un individuo che non ha un io-corporeo continuo, ma pieno di buchi e di falle, attraverso le quali, facilmente, può defluire la propria individualità che rischia si mischiarsi con quella dell’altro, minacciando sentimenti di perdita di sé. E’ facile che questi soggetti abbiano avuto delle cure materne parziali, che evitavano le parti sessuate che, di conseguenza, non hanno potuto avere un’adeguata rappresentazione e sono rimaste impensabili. Dei veri e propri buchi nell’apparato psichico. Anzieu, inoltre, fa presente che le cure materne possono essere fallimentari non solo per difetto di contatto, ma anche per eccesso, soprattutto se quest’eccesso è di tipo eccitante. In questo caso si potrebbe formare un fantasma di pelle irritata o scorticata.

Per concludere, dell’opera di Anzieu mi ha colpito molto un breve paragrafo che però ritengo davvero illuminante per la questione del limite. In poche righe si riassume la profonda paradossalità della funzione della pelle e quindi del limite fisico e psichico che divide ogni essere umano dall’Altro e dalla realtà circostante. E’ paradossale perché, per esempio, protegge dalle aggressioni esterne, ma nello stesso tempo conserva ricordi delle azioni della realtà su di essa; è la parte manifesta dell’uomo, ma si possono anche manipolare i messaggi che invia, “è permeabile e impermeabile. Veritiera e ingannatrice. Rigeneratrice e in via di disseccamento permanente, [...] richiama investimenti libidici sia narcisisti che sessuali. E’ la sede del benessere e della seduzione, ci fornisce dolori e piaceri. Trasmette al cervello le informazioni che provengono dal mondo esterno, compresi i messaggi <impalpabili> che, tra l’altro, ha appunto la funzione di <palpare> senza che l’Io ne sia cosciente. La pelle è solida e fragile.”[3]. La pelle sembra rispecchiare le grandi contraddizioni che sono proprie dell’uomo e della sua psiche, ed infatti dalla pelle dipendono le prime e più cruciali fasi si formazione dell’individuo. Infine Anzieu ribadisce la natura di transizionalità della pelle, di intermediaria fra diverse forze che spingono e convergono tutte verso una superficie limite che ne dà significato. Senza limite non si potrebbero sentire le tensioni interne (che pervaderebbero l’individuo causando uno stato di angosciosa eccitazione pulsionale diffusa, costante ed inappagabile), ne cogliere i tratti della realtà esterna in cui il soggetto è immerso (senza il limite l’individuo verrebbe invaso e sparirebbe tra gli oggetti e gli Altri del mondo). Ed è quindi ancora il limite che si rivela punto di forte criticità, contraddizione e ambiguità ma anche di necessità vitale.

Anzieu fa presente che sempre più le manifestazioni psicopatologiche riguardano problemi nella sfera del limite come quelle borderline e narcisistiche. Io aggiungerei anche quelle psicosomatiche a carico della pelle e alcuni disturbi isterici o della sfera sessuale, come sopra menzionato. Ma questi nuclei patologici sono solo espressione di difficoltà individuali o sono specchio di una realtà più ampia che non sa più dove sono finiti i suoi limiti? Di questo tratterò più avanti.

FREUD: L’IO CORPOREO E L’EDIPO

Ora, in questo paragrafo dedicato al padre della psicoanalisi, cercherò di collegare per analogie o differenze i modelli degli autori sopra citati. Bisogna sempre fare riferimento alla Legge del padre se si vuol esser certi che le proprie azioni siano legittime oppure no.

Freud riteneva che la nascita del Sé derivasse dalla costruzione di un buon Io corporeo. L’io corporeo è molto diverso dall’Io e si genera a partire dalla sensazioni corporee e dalla proiezione di esse verso la psiche. Questo processo permette al bambino di rappresentare i propri confini superficiali, che diventeranno più completi man mano lo sviluppo psico-sessuale procederà. Affinché venga costruito un sano Io corporeo sono indispensabili adeguate cure materne, in quanto è proprio la madre, la maggior dispensatrice di contatti e quindi di sensazioni corporee.

Questa idea di Io corporeo come base per la nascita del Sé, è molto vicina ai modelli elaborati da Winnicott e Anzieu, soprattutto a quello di Anzieu, relativamente alle sensazioni superficialiin maggior parte provenienti dalla pelle.

L’Io strutturale di Freud, che si sviluppa da quello corporeo, viene considerato come parte emergente dall’Es che si protende, però, verso l’esterno. E’ un intermediario tra dentro e fuori, Anzieu parla di interfaccia. L’io ha principalmente funzioni autoconservative, grazie alla sua capacità di memorizzare gli stimoli, di differire la scarica attraverso il pensiero cosciente, di modificare l’ambiente in modo attivo, di avere accesso alla temporalità. Proprio grazie a queste abilità, assieme ai meccanismi di difesa inconsci,  l’Io deve far fronte alle spinte interne dell’Es per conciliarle con le esigenze della realtà e, in seguito, anche con quelle del Super-io. L’io è un diplomatico che si trova sempre al confine tra tre stati tiranni. Fintanto che l’Io non si è sviluppato è la madre che deve fungere da Io ausiliario e riparare da eccessivi eccitamenti (funzione paraeccitatoria). Si torna, quindi, al ruolo fondamentale delle cure materne, che inizialmente, attraverso il contatto, stimolano la formazione dell’Io-corporeo, e poi aiutano, attraverso la dinamica dentro e fuori (reveriè di Bion), a significare le sensazioni del bambino, sviluppando il pensiero, ma anche l’involucro protettivo che è lo stesso apparato psichico (metafora embriologica) necessario a pensare le perturbazioni superficiali del corpo (ancora ricorre l’importanza della pelle).

Ritenendo, Freud, che il pieno sviluppo del Sé si raggiungesse comunque dopo aver percorso tutte le delle fasi di maturazione psico-sessuale, non si può trascurare il momento cruciale per l’individuazione rappresentato dall’Edipo. Nell’Edipo il bambino o la bambina abbandonano la posizione narcisista e fusionale presso la madre per, aprirsi alla triangolazione, e quindi, al riconoscimento dell’Altro come diverso da sé, alla  differenza fra sessi, nonché alla temporalità legata alle generazioni. L’Edipo è un tempo di grande frustrazione, dove il bambino fa, per la prima volta, i conti con i propri limiti; la castrazione non è solo minaccia di evirazione, ma simbolo dell’universale ferita narcisistica dell’essere umano posto davanti alla sua limitatezza. La Mahler e Winnicott parlando di individuazione e separazione dalla fusionalità materna, mettono in primo piano l’importanza del contatto, della relazione e dell’attaccamento alla madre, ma trascurano, o non considerano fondamentale il ruolo della pulsionalità come motore dello sviluppo; il soggetto per loro emerge anche senza la figura paterna che obbliga alla rinuncia pulsionale e senza la spinta erotica verso l’oggetto.

IL NARCISIMO: TRA ONNIPOTENZA E CASTRAZIONE

Non si può parlare di nascita del soggetto senza spendere qualche parola sul narcisismo: funzionamento che caratterizza i primi anni di vita, ma che non si esaurisce nell’età infantile. Freud parla di un narcisismo evolutivo, sano e indispensabile (narcisismo primario) che si colloca tra l’autoerotismo (privo di oggetto) e l’amore oggettuale, nel quale il bambino investe come oggetto il proprio Sé (più precisamente l’Io corporeo) e si percepisce come onnipotente, grazie alla madre che risponde ai suoi bisogni. E’ il primo  passo fondamentale verso la separazione dalla madre, durante il quale il bambino può sentirsi al sicuro nella sua onnipotenza e nello stesso tempo iniziare a stabilire dei confini tra sé e la madre. Pian piano le pulsioni sessuali che richiedono l’oggetto e  le pulsioni dell’Io che non consentono un soddisfacimenti autoerotico, spingono il bambino ad abbandonare il guscio narcisistico per rivolgersi all’oggetto. Freud parla, però, anche di un narcisismo secondario, più patologico, che può essere presente nell’età adulta: la libido investita negli oggetti si ritira e ritorna all’Io. Questo può avvenire per varie ragioni, come una malattia, un episodio traumatico, un lutto ecc. Un ritiro narcisistico può condurre a un funzionamento idealizzante, di dipendenza dagli oggetti, che, nello stesso tempo, innesca una volontà onnipotente ed egocentrica di controllarli, bassa autostima.

Quello che mi preme è però riflettere in generale sulla relazione tra narcisismo e limite. Anche qui, la dinamica pare essere contraddittoria: da una parte il narcisismo primario è funzionale allo sviluppo del Sé, dall’altra l’idealizzazione e l’onnipotenza alla lunga possono far emergere problematiche di intolleranza verso i limiti e quindi di relazione con la realtà concreta. Come detto prima, la grande ferita narcisistica dell’Edipo risveglia l’essere umano dall’illusione di essere onnipotente e di avere accesso a tutte le risposte. L’incontro dell’uomo con l’Altro (in carne ed ossa, o anche facendo esperienza del proprio inconscio) lo pone di fronte ad una incapacità esistenziale di controllare ogni cosa, ed è questo il momento nel quale si esce dalla fusionalità materna che Tutto contiene. D'altronde la caratteristica di base dell’inconscio è che esso sia inconoscibile, e che quindi, la realtà umana sia anch’essa inconoscibile. Non a caso l’inacessibilità dell’origine e della fine è il più grande quesito che l’uomo continua a porsi senza mai darsi risposta, ma è anche il limite a cui tiene di più a superare.

L’onnipotenza della tecnica, lo smarrimento e il disconoscimento dei limiti

Penso che i nostri tempi siano tempi d’onnipotenza, di ricerca di assoluto godimento e di insofferenza verso qualsiasi tipo di frustrazione. Il desiderio di onnipotenza si può intravedere nell’operare della tecnica, sempre più efficiente a rispondere a qualsiasi richiesta di esenzione dal dolore, dalla perdita e della frustrazione. La morte, l’invecchiamento, la dura concretezza della vita cercano di essere evasi, evitati o meglio ancora controllati. Si vedano, per esempio, i sempre più numerosi interventi di chirurgia estetica per fermare il normale processo di decadimento corporeo, il progredire delle tecniche mediche capaci di trapiantare organi e di produrli, le potenzialità della clonazione, ma anche la capacità della comunicazione via rete, che cancella tempo, spazio e nasconde l’effettiva presenza dell’Altro corporeo e della sua identità consentendone una idealizzazione (altro meccanismo tipico del narcisismo). Il corpo, in tutte queste attività,  viene tendenzialmente scisso dalla mente, diventa puro strumento meccanico, spesso fardello di  una psiche che può viaggiare verso l’immortalità e verso il dominio di quello che un tempo era il destino naturale della vita. La mente può immaginare, fantasticare mondi diversi, privi di frustrazioni e di limitazioni, e sempre la ragione dell’Io può calcolare e progettare i modi per soddisfare queste fantasie. Peccato che si trascuri la presenza del corpo, inteso come la parte tangibile nella quale ci si dovrebbe riconoscere e distinguere, nella quale dimorano pulsioni interne che non si possono far tacere e dalla quale deriva necessariamente anche la vita psichica. Sono proprio questi limiti esistenziali che l’uomo cerca di superare sentendoli come angosciosi e dolorosamente impensabili; purtroppo ad ogni salto di staccionata se ne presenta un’altra che fa da ostacolo. Se non si distinguono i fini di tipo evolutivo da quelli onnipotenti e narcisistici della tecnologia, il suo uso, non del tutto consapevole, può portare alla perdita di Sé e a dilaganti sentimenti di vuoto incolmabile. Bisogna essere in grado di conoscere sufficientemente il proprio Altro interno e aver integrato l’unità psiche/soma, accettandone i limiti; insomma, aver un apparato psichico ben funzionante e maturo, per non cadere vittime dell’illusione tecnologica, e per saper usare in modo veramente pensato e creativo uno dei più potenti prodotti umani. 

La procreazione assistita

Un discorso a parte lo riservo per la fecondazione assistita. Negli ultimi decenni si è visto un graduale aumento del ricorso alla fecondazione assistita, un po’ per l’ovvio sviluppo delle scoperte mediche, ma anche per un aumento dei problemi di fertilità, soprattutto nei paesi industrializzati. Oggigiorno, una coppia che ricorre alla fecondazione assistita per procreare non è più un evento sensazionale. E’ sensazionale, invece, che le cause dell’infertilità siano per lo più inspiegabili dal punto di vista medico e che, invece di cercare la soluzione del problema altrove, lo si scavalchi. Quando una coppia decide di servirsi della PMA, i colloqui psicologici sono visti come sostegno alla strada che si ha già deciso di percorrere, difficilmente diventano, come dovrebbe essere, momento di riflessione sul motivo che ha condotto verso quella direzione. I miracoli della tecnica distolgono dallo sviluppare un pensiero su ciò che sta accadendo al proprio corpo e sulle probabili origini psicologiche del sintomo, in quanto forniscono una più facile e veloce, ma non meno indolore, soluzione. La tecnica medica si pone in continuità con il naturale processo di conservazione della specie: alla natura non importa da dove nascano i bambini, basta che lo facciano. Purtroppo, o per fortuna, l’uomo è molto diverso dall’animale, la sua parte puramente istintuale è intrecciata indissolubilmente con la parte umana, nella quale rientrano tutti i meccanismi e i prodotti psichici tipici della nostra specie (linguaggio, parola, cultura). Il semplice atto riproduttivo viene sempre accompagnato da fantasie, aspettative, a volte fantasmi ed è per questo che si travalicano sempre i limiti “naturali”, a volte, anche quelli umani. L’uomo, incapace di comprendere totalmente il mistero della nascita, considerata spesso un dono o un miracolo, cerca di controllarlo, di renderlo visibile, programmabile, certo. Difficilmente ci riesce: moltissime sono le complicazioni di un iter di PMA e frequenti gli aborti, quasi che queste spinte onnipotenti trovino una resistenza opposta dal corpo. Senza fine sono anche, se i primi tentativi non vanno a buon fine, le procedure farmacologiche, gli interventi medici, gli effetti collaterali.

Un elemento che salta agli occhi è, inoltre, come spesso uno dei membri della coppia che si serve della PMA si trovi a recitare una parte secondaria, defilata; in genere tocca all’uomo. Il figlio non è più il risultato di un incontro sessuale tra due persone, ma diventa una questione tra colui che soffre di sterilità e i medici. Talvolta la decisione di utilizzare la fecondazione assistita, specialmente se le cause della sterilità si suppone siano psicologiche, deriva, non da un maturo desiderio d’oggetto, ma da un Edipo non risolto, o più spesso da una ricerca narcisistica di una pienezza perduta. Nel primo caso, si potrebbe pensare che il desiderio di un figlio sia conseguenza del voler “avere” un bene, un fallo, necessario alla donna per dimostrare la sua riuscita, la sua prestazione. Un bambino è voluto perché desiderabile socialmente. Sono sentimenti di invidia (del pene) che spesso emergono da frasi diffuse come: “tutte hanno la pancia e io no”, “tutti hanno un figlio e io non posso averlo”. Dal compagno o dal marito (che nell’isteria stanno al posto del padre tanto amato, fra l’altro mai capaci di eguagliarlo nella sua grandezza) il sintomo, con un tentativo evolutivo, tenta di mettere in guardia la donna; la scienza medica, invece, aiuta a mantenere attiva la rimozione. Nel secondo caso, la gravidanza diventa una questione fra donne, fra madre e figlia. La donna ricerca dalla gravidanza un piacere e un godimento che le sono stati negati, cerca nel proprio corpo quel piacere materno, senza spazio e senza tempo che possa riempire il vuoto del suo ventre. E’ un’indagine verso l’origine, ma anche un’incapacità di accettare il limite, un desiderio di tornare al piacere della simbiosi infantile. La fusionalità, però, produce un movimento di dissolvimento del soggetto che passivamente si mette nelle mani dei medici, che si annulla nel tentativo di padroneggiare il mistero che l’ha messo al mondo. Come sempre si giunge ad una contraddizione. Si può pensare quindi alla fecondazione assistita come ad una soluzione isterica frutto di un Edipo non risolto, nel primo caso, più arcaica, nel secondo.

Racalbuto in un suo lavoro[4]  definisce l’isteria come “un difetto del luogo della generazione”, un problema legato al femminile, femminile inteso in senso ampio come disposizione psichica verso l’oggetto (che ha possibilità di generarlo). Da notare che il femminile non può esserci in assenza del maschile e che esso si sviluppa all’interno dalla bisessualità psichica. Nell’isterica questa coppia maschile/femminile non viene tollerata, perché non viene tollerata l’alterità e il limite che impone. Racalbuto fa poi una distinzione fra isteria originaria, narcisistica ed edipica. L’isteria originaria comporta una perdita di Sé come soggetto e si sviluppa di conseguenza ad una carenza nell’identificazione con la madre (unico mezzo che promuove la relazione oggettuale e quindi l’inizio della separazione dalla madre e l’accesso al femminile e quindi all’oggettualità), unico oggetto amato e subito perduto, unico riferimento per la definizione di Sé e della propria identità. L’isteria originaria si ritrova nella patologia borderline, psicosomatica o narcisistica, dove i confini del Sé non sono ancora ben definiti. Il nucleo narcisistico dell’isteria, invece, si può trovare anche nelle dinamiche di un Edipo in sospeso, non tanto nell’isterica quando cerca nelle relazioni con gli uomini il padre tanto amato, ma piuttosto nelle continue richieste d’essere amata. L’amore isterico non è di tipo sessuale, ma esistenziale, è rivolto verso il Sé; l’altro è solo uno strumento e nella relazione viene proiettato il conflitto tra Sé (cercato attraverso la seduzione) e l’Altro (rifiutato dopo essere stato sedotto). Il difetto del luogo di generazione deriva da un Edipo irrisolto e, quindi, da una mancata definizione si sé come soggetto. L’altro non viene ammesso, l’accesso alla triangolazione viene negato e al differenza sessuale non viene riconosciuta. Con queste premesse una gravidanza può solo essere un tentativo inconscio di trovare una soluzione a queste difficoltà esistenziali e la fecondazione assistita l’ennesima manifestazione di un malessere psichico che il sintomo dell’infertilità ha tentato di far emergere.

LA MALINCONIA E IL DOPPIO: TRA LA VITA E LA MORTE

 Uno dei confini più problematici e dolorosi da tollerare è quello fra la vita e la morte. Anche questo limite sembra chiaro: o si è morti o si è vivi. Con la scienza che avanza non è più certo nemmeno questo: a volte, per esempio, in caso di morte cerebrale, sono le convenzioni dei vivi a dichiarare il destino dei morti. Ma non è solo con i progressi della medicina che la questione del confine tra la vita e la morte si pone con la sua elevata criticità. Da quando è mondo l’essere umano è convinto (oggi di meno), che ci sia un dopo, un oltre e che, con questo oltre, di possa anche comunicare in qualche modo, pregando, invocando, sacrificando. Da sempre esistono i fantasmi che tornano per tormentare i vivi o a far loro compagnia, gli angeli custodi, i fenomeni di possessione. Sono tutti elementi che dimostrano l’angosciosa insofferenza dell’uomo verso la morte e la sua eterna speranza che alla fine rimanga qualcosa di sé e dei suoi cari. Esistono degli stati psichici, come la melanconia, in cui i fantasmi di una persona cara o di un oggetto rimangono per tenere una benevola compagnia, ma ingabbiano la psiche in una spirale coattiva di distruzione. Freud elabora la sua teoria sulla malinconia a partire dall’osservazione che lo stato di tristezza e disperazione costante in cui versa un depresso è simile a quello di una persona che ha subito da poco un grave lutto. Il lavoro psichico che segue ad un lutto comprende il doloroso ritiro della libido dall’oggetto morto, e un futuro investimento di questa in un altro oggetto. A volte i lutti, non si risolvono e la libido, invece che essere reinvestita, rimane nell’Io e rivolta verso di esso. Questo avviene quando l’oggetto è investito narcisisticamente e la sua perdita implica una ferita al proprio stesso Io che si serviva dell’oggetto come sostegno. L’oggetto perduto viene introiettato, nell’estremo tentativo di conservarlo, andando, così, a far parte dell’Io, il quale andrà a identificarsi a sua volta con l’oggetto morto. Si ha quindi una scissione dell’Io, di cui una parte viene perduta con l’oggetto e per la quale si piange continuamente la perdita. Nello stesso tempo è possibile provare forte rabbia verso l’oggetto morto, ma questo per colpa del Super-Io che rimprovera l’Io di essersi perduto. La persona depressa è un vero morto che cammina, che costringe i vivi a piangere con lei, incapace di trovare un modo alternativo a quello narcisista-divorante di relazionarsi con l’Altro.

E’ interessante però anche riflettere sull’elaborazione del lutto secondo la filogenesi. L’uomo, fin dai tempi più antichi, ha cercato, attraverso riti funebri che coinvolgono il gruppo sociale legato al defunto e che si compiono in genere a breve distanza dalla dipartita di qualcuno, di controllare in qualche modo l’elemento soprannaturale e, quindi, di rendere al morto il più possibile agevole il viaggio verso l’aldilà.  Ma i riti sono utili anche per l’elaborazione del lutto. Essi consentono di oggettivare la morte: esponendo solitamente il corpo del defunto, infatti, si permette un pubblico riconoscimento dell’effettiva condizione di defunto. Ma all’interno del rito si ha anche l’ opportunità e il tempo di sfogare gli affetti e il dolore. Il rito protegge chi rimane da una possibile confusione fra la morte e la vita, marcando con chiarezza il confine, ma nello stesso tempo permettendo di conservare il ricordo dell’oggetto amato senza che esso diventi un tiranno avanzando la pretesa di essere ancora in vita. L’elaborazione del lutto è più difficile, infatti, quando il corpo viene a mancare, perché l’assenza lascia viva la speranza che la morte non sia reale. Capita, a chi non accetta la separazione dai morti, di esserne tormentato e di vederne il fantasma.

I fantasmi possono rientrare nel fenomeno psichico del doppio. Il doppio ha due valenze: una positiva ed evolutiva, tipica del bambino che inizia la separazione dalla madre, e una negativa, sotto forma di perturbante, che segnala un angoscioso e ritorno di parti rimosse di sé. Il doppio evolutivo deriva da un’azione proiettiva dell’Io arcaico del bambino (nella fase narcisistica) verso l’esterno e da un suo sdoppiamento. Questo meccanismo consente al bambino di difendersi dall’angoscia dell’Altro (madre) e, nello stesso tempo, dalla sua perdita. Egli teme, da una parte di perdere la sua Unicità onnipotente e l’oggetto d’amore primario, dall’altra di rimanere fuso con la madre e di perdere la possibilità di differenziarsi. Il doppio si colloca a metà strada, quindi (è una fase di transizione), fra la posizione narcisistica e fusionale e l’accoglimento dell’Altro dentro di sé. Il doppio in negativo, invece, è un ritorno coattivo del rimosso e delle parti spiacevoli di sé, che si ripresenta in carne ed ossa, per esempio nel sosia, e che lascia una sensazione di terrorizzante familiarità, fino a strutturarsi in un delirio. La riflessione su limite fra vita e morte si lega di più al processo del doppio evolutivo, che però, si è inceppato. Il melanconico non riconosce la morte dell’oggetto e non se ne vuole separare perché fuso in esso, continuando a ricordarlo ed ad evocarlo con masochistico compiacimento. In questo modo si nega l’opportunità di farsi soggetto, disperandosi, non solo per la perdita dell’oggetto ma anche per quella di se stesso. Anche qui il confine tra sé e l’Altro è labile.

INCONTRI AL CONFINE: L’ATTIVITA’ POETICA

 Capita all’uomo come al bambino durante il gioco di avere l’esigenza di soddisfare indirettamente i propri desideri assecondando le proprie fantasticherie. Ne ”Il poeta e la fantasia”, conferenza del 1907, Freud metteva in parallelo l’attività del gioco e l’attività del poeta, considerandole simili nei modi e nei fini; coinvolgono entrambe la fantasia e la sperimentano con un senso di soddisfacimento e di godimento. Il bambino utilizza lo spazio del gioco come spazio intermedio all’interno del quale può, in sicurezza, fare esperienza della realtà plasmandola a seconda dei suoi desideri. E’ uno spazio transizionale che non appartiene, come ricorda Winnicott, né al regno della realtà, nè al regno della fantasia. Il bambino utilizza questo spazio in modo evolutivo, assecondando il proprio desiderio e quello dei genitori di diventare grande, grazie all’appoggio dell’oggetto concreto. Per l’adulto la fantasticheria è sempre, al pari del gioco, un momento di soddisfacimento del desiderio (senza più l’appoggio dell’oggetto concreto), ma segue un atteggiamento regressivo, di ritiro dalla realtà sociale verso quella narcisistica, più accogliente, fusionale e nostalgicamente ricordata. Non a caso l’adulto si guarda bene dal confessare le proprie fantasie al contrario del bambino, per il quale il gioco è un’attività manifesta e potenzialmente sociale.

La poesia segna un punto di incontro tra le fantasticherie private e le richieste sociali. E’ un’attività piacevole, che coinvolge le parti più intime e inconsce della persona, ma è anche in grado, attraverso il linguaggio, di generare un pensiero e di creare uno spazio pubblico di condivisione e riconoscimento. Il poeta, usando parole non sature lascia spazio all’immedesimazione e consente alle persone di fare esperienza della propria vita emotiva durante l’esercizio cognitivo della lettura, unendo processi consci a quelli inconsci. E’ per questo che la poesia è un processo creativo: va a pescare nell’inconscio elementi spesso indicibili e sconosciuti, portandoli alla luce, in modo sfumato, senza sviluppare teorie o razionalizzazioni, ma lasciando ancora del tempo per sentirli e provali. A volte da una poesia si possono ricavare risposte su alcuni stati interni dei quali non si conosceva l’origine,  come in una sorta di interpretazione. La poesia, quindi, può essere un metodo di profonda esplorazione di sé e un tentativo di sviluppare un sapere riguardo alle proprie parti più nascoste. Non a caso il poetare, magari come attività nascosta fra le pagine di qualche diario,  è più diffuso di quanto si possa pensare e comune fra le persone che hanno un’intensa vita emotiva, a volte anche dolorosa. In generale lo scrivere, qualora ci sia un disagio interno, è un qualcosa di positivo, che mantiene in esercizio la psiche, la quale cerca di trovare una soluzione alla sofferenza tentando di legare gli affetti a rappresentazioni di parola nella speranza di comprendere questi ultimi. Spesso lo si fa inconsciamente e, una volta risolto il problema, sparisce insieme ad esso anche la vena creativa. Si pensi a quanti adolescenti scrivono poesie, o tengono un diario e poi, in età adulta, superata la difficile fase del risveglio pulsionale, smettono di farlo. 

Anche la poesia, come i sogni, gli atti mancati, o le tradizioni popolari sono fenomeni di confine, entro il quale si incontrano il basso e l’alto, l’inconscio e la realtà, l’irrazionalità e la ragione. Le due nature che compongono l’uomo, di solito in conflitto fra di loro, trovano nella poesia un momento di sintesi particolare, in cui dentro e fuori si compenetrano e lo straniero (l’inconscio) può essere tollerato, compreso e in qualche modo piacevolmente soddisfatto.

CONCLUSIONI

 Ho pensato di trattare questo argomento in seguito a delle riflessioni personali, sull’incapacità dell’uomo a stare dentro a dei limiti e che sembrano molto spesso ovvi, ma che altrettanto spesso non lo sono e anche alla grande sofferenza che si prova ad essere messi di fronte ad essi. L’uomo fatica a sopportare la frustrazione che la Legge paterna impone con la nascita della società, ma non solo, fatica anche ad accettare i limiti stessi del suo corpo mortale. C’è una tendenza a cercare oltre, a superare quello che è visibile, a sperare (o illudersi) che la vita non si tutto qui, che essa possa riservare ancora quel benessere antico di quando si era nel grembo materno. Ma questa ricerca è legittima quando si è coscienti che si potrebbe arrivare ad un punto cieco, e lo si accoglie come momento propulsivo a formulare altre soluzioni, altri pensieri. Quando il limite non viene accettato si corre il rischio di perdersi rifiutando proprio quella parte che più potrebbe arricchire di senso l’esistenza. Sta sempre in un equilibrio precario il benessere di una persona, in bilico tra fantasia e realtà, tra profondità e superficie, tra finito e infinito. E l’equilibrio va costantemente ricercato spostandosi dentro e fuori, ad un’estremità all’altra di questi due poli.

Solo se si mettono in comune i confini tra due mondi diversi si può sperare di avere in futuro un mondo più ricco e consapevole. Forse è proprio ai nostri confini che dobbiamo guardare per capire noi stessi. E in questi non troveremo mai risposte esatte, ma fluttuanti che ci porteranno a tratti verso l’Altro, a tratti verso noi stessi, come le onde di Bartleboom. La psicoanalisi, che non trascura mai la parte oscura, non conosciuta, imprevedibile dell’uomo, che cerca oltre i limiti generalmente consentiti e che ammette umilmente un’incapacità di fondo a stabilire nettamente quale sia il punto di arrivo è uno dei metodi più adatti a chi voglia davvero interrogarsi sulla propria esistenza o cercare di risolvere disagi a cui non sa dare risposta. Essa può aiutare a indagare oltre i confini del tempo e della coscienza offrendo il sostegno necessario (la mente dell’analista) affinché non ci si perda.

FONTI CONSULTATE

ANZIEU. D.,  L’Io-pelle, Borla, Roma , 2005

BARICCO A., Oceano Mare, BUR, Milano, 2004

GALIMBERTI U.,Pische e tecne, Feltrinelli, Milano, 2005

GREENBERG J. R., MITCHELL S. A., Le relazioni oggettualinella teoria psicoanalitica, Il Mulino, Bologna, 1986

MAHLER M., PINE F, BERGMAN A., La nascita  psicologica del bambino, Boringhieri

MANGINI E., Lezioni sul pensiero freudiano, LED, Milano, 2001

RUSSO L., Le illusioni del pensiero, Borla, Roma, 2006

RACALBUTO A., L’isteria: dalle origini all’attualità. Un omaggio al “femminile”, lavoro letto l’11 Dicembre 1999 al Centro Psicoanalitico di Roma all’interno di un seminario sull’isteria, fonte scaricabile dal sito:  http://www.psychomedia.it/pm/indther/psan/racalbuto.htm



[1] A: BARICCO, Oceano Mare, BUR, Milano, 2004, pp. 31

[2] D. ANZIEU, L’io –pelle, Borla 2005, Roma, pp. 103

[3] D. ANZIEU, L’io –pelle cit., pp. 31

[4] A. RACALBUTO, L’isteria: dalle origini all’attualità. Un omaggio al “femminile”, lavoro letto nel ’99 al Centro Psicoanalitico di Roma in occasione del seminario “Perché l’isteria? Attualità di una malattia ontologica”